lunedì 2 gennaio 2017

INLEAAD




Anche stavolta ho abboccato all’amo di Annamaria Testa: inventare il nome di una città immaginaria anagrammando le lettere del proprio nome. «Il suono vi suggerirà in quale parte dell’universo, reale o fantasticato, si trova. Ora, descrivete com’è fatta la vostra città: anche se in modo nascosto, si chiama come voi e, magari, un po’ vi somiglia».
Non avevo resistito già due anni fa, giocando con DMGP, salvo poi sprofondare in baratri di angoscia.

Stavolta è peggio, molto peggio.
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Qui, sul confine, il tramonto ha il profumo dolciastro del gelsomino.
Il sole sta calando dietro la cresta del Keraylam, mentre l’ombra del minareto si allunga sulla sabbia scura dei vicoli e sui mosaici della Porta d’Oro.
Amir, l’eunuco, riporta a palazzo le concubine del Khan, inerpicandosi sul lato in ombra dell’unica strada lastricata di Inleaad. La prima volta che arrivai qui me ne offrì una, la più giovane. “Come ti chiami?” “Fawziya”. Mi disse di avere sedici anni, ma ricordo di aver pensato che non dovevano essere più di dodici. Alta, però. Le ciglia fitte e lunghe, lunghissime. Rifiutare non fu difficile: Amir non ci mise molto a capire che non sono le ragazze, a piacermi.

Sì, sono un po’ dimagrito, la pelle mi si è scurita. Ma continuano a chiamarmi “il Danese”, e in effetti continuo ad avere l’apparenza di un turista, non poi così eccentrico. Mi piace il mio panama bianco, questo sì, e la mia giacca bianca. E i pantaloni bianchi. Un’illusione di purezza, forse.
Perché poi un’illusione? Non ho rimorsi. Forse, qualche rimpianto. E non voglio ricordi: dei tanti luoghi in cui sono stato, dei tanti volti violati, ho cancellato persino il nome. Il mondo è un giardino incolto, pieno tutto di malefiche piante. Io, sono solo una di loro.

So perché sono tornato a Inleaad, ancora una volta. Il vento del deserto mi asciuga, la melma evapora. Rarefatto, leggero. Sconosciuto a me stesso.
Ogni giorno, al tramonto, mi siedo qui, al mio tavolino, sulla veranda dell’unico albergo di questa città sperduta. No, non ogni giorno: ieri non ce l’ho fatta ad alzarmi dal letto. Aisha ha bussato alla porta per chiedermi se stavo bene, se volevo dell’acqua. Le ho risposto che stavo bene.
Mi siedo qui, e osservo. L’albergo è a quattro isolati dalla piazza del mercato, quanto basta per non essere infastiditi dal vociare e dagli odori troppo penetranti ma abbastanza vicino per vedere il via vai di uomini e cose. Pezze di seta, frutti, gabbie. E cammelli. Mi piacciono, i cammelli. L’andatura ciondolante, lo sguardo ebete e beffardo di chi non conosce la noia, e dimentica presto il dolore.

Il tè al cardamomo che mi ha preparato Aisha non è rimasto fresco a lungo, fa troppo caldo. Ne prenderò un altro quando si sarà alzato il vento, prima che cali il gelo della notte.
Sì, oggi fa troppo caldo. Strano, anche per Inleaad.
L'aria è madida del profumo dei gelsomini. Greve, quasi putrido, marcescente.

Come me, che a Inleaad sono venuto a morire.