lunedì 19 settembre 2016

Una fiorentina, magari a San Gimignano



Dopo quasi dieci anni di onorato servizio, di cui uno di agonia, la scorsa settimana il nostro televisore ci ha definitivamente abbandonato. Trascinata da marito e figli in un megastore di elettrodomestici per comprarne uno nuovo, sono stata resa complice impotente nell’acquisto di un marchingegno secondo me esteticamente brutto quanto inutilmente faraonico, per di più complicato da non ho ancora capito bene quali strabilianti funzioni aggiuntive. Chissà perché i maschi adulti, tutti i maschi adulti, di fronte a qualsiasi aggeggio tecnologico ridiventano bambini (forse perché in realtà non hanno mai smesso di esserlo…). Ma andiamo avanti.
Per invogliare all’acquisto, in determinati periodi dell’anno quella catena di negozi offre in regalo, per importi superiori a una certa cifra, prodotti e beni di vario tipo: set di valigie, altri elettrodomestici, voli low cost ecc. In queste settimane il regalo in questione consisteva in due vocabolari Zanichelli, uno di italiano l’altro di inglese, in versione cartacea e digitale. Dio benedica l’anonimo e sconosciuto addetto al marketing che ha avuto l’idea di regalare cultura invece che un tostapane.
Così, mentre marito e figli armeggiavano in salotto, entusiasti ed estasiati, tra cavi e connessioni wireless, porte HDMI, firmware e diavolerie simili, io mi sono rintanata in cucina con lo scatolone ancora incellofanato dei due vocabolari. Ah, la sensazione goduriosa di toccare, aprire e sfogliare un libro intonso… Un vocabolario poi…

Il vocabolario di italiano in uso finora in casa nostra è sempre stato quello della Zanichelli, “Il nuovo Zingarelli”, in una precedente e ormai obsoleta edizione. Me l’ero fatto regalare da mio marito quando non eravamo ancora sposati, come regalo di Natale (!). Quel vocabolario ha accompagnato dunque più di trent’anni di vita e di lavoro, trent’anni di cui porta fieramente tutte le cicatrici: copertina più e più volte riparata con lo scotch, pagine di un indefinibile color beigino sporco, ditate, macchie di caffè e un inequivocabile odore di fumo di sigarette… Non ho mai pensato di sostituirlo, anche perché, ad essere sincera, in questi ultimi anni ho sempre più integrato il suo uso con i vari vocabolari online, soprattutto il Treccani, che offre contemporaneamente i link all’Enciclopedia, al dizionario dei sinonimi, alle aree tematiche, tutto in un click. Ma quanto mi sono persa…

Innanzi tutto, la nuova edizione riporta circa 147.000 lemmi rispetto ai 125.000 di quella di trent’anni fa, come dire che in soli trent’anni l’italiano si è arricchito, a livello lessicale, di circa il 20%: straordinario, se si pensa che il dizionario del Tommaseo (1861-1879) riportava circa 120.000 definizioni, più o meno come trent’anni fa; detto in altre parole, vuol dire che l’italiano è rimasto tale e quale per più di cent’anni per poi conoscere un’espansione vertiginosa in pochi decenni. Straordinario ma anche un po’ inquietante, perché non può non far pensare al flusso vorticoso e travolgente in cui siamo immersi, che la lingua non fa altro che registrare e definire.
La nuova edizione segnala poi circa 3000 parole “da salvare”: non propriamente parole desuete o arcaiche, ma parole che, nella generale banalizzazione e standardizzazione espressiva, rischiano di estinguersi, insieme con le relative sfumature semantiche. “Fugace”, “uggioso”, “intonso”… Che meraviglia, che tenerezza.
Compaiono poi 115 “definizioni d’autore”, ovvero 115 parole di cui è stata chiesta una definizione ad altrettanti personaggi della cultura, della scienza, dello spettacolo, dello sport. In realtà non si tratta tanto di definizioni ma di interpretazioni, che permettono di avvicinarsi in poche righe all’intimità più sconosciuta di coloro che le hanno date e di scoprire significati nuovi in parole apparentemente banali. Me le sono lette tutte, una dopo l’altra, in una sorta di libidine compulsiva. Ne riporto solo una, quella data da Mina relativamente alla parola “canto”, giusto per dare un’idea: «Dio non canta. Forse non ha mai cantato: si vede che non gli serviva. Ha dato il canto a tutti gli elementi che popolano questo mondo e che si danno da fare per tenerlo vivo. Il rumore dell’esistenza è canto. […] È una liberazione. Una manifestazione della verità. E non ha bisogno di spettatori». Ecco, giusto per dare un’idea.
Infine, tra le varie appendici la nuova edizione riporta una serie di locuzioni latine più o meno conosciute e utilizzate: accanto a prevedibili “do ut des” o “habemus papam” compaiono dei meno scontati “non omnis moriar” o “sine ira et studio”. Ora, oltre a un saluto affettuoso a Orazio e a Tacito, mi viene da fare una considerazione. Nella mia edizione di trent’anni fa le ultime pagine dello Zingarelli riportano una lunga serie di proverbi e modi di dire italiani, non locuzioni latine: “Tanto va la gatta al lardo…”, “Tirare i remi in barca”, “Madonnina infilzata”… Forse, forse, trent’anni fa c’era bisogno di spiegare l’italiano a chi italiano non era, oggi c’è bisogno di ricordare agli italiani chi sono e da dove vengono. Un plauso dunque ai compilatori del vocabolario, che non a caso hanno scelto come parole chiave di questa edizione IDENTITÀ e CAMBIAMENTO: xenismi e apertura al mondo, sì, linguisticamente e non, ma anche recupero, consapevolezza e conservazione di ciò che siamo e siamo stati, linguisticamente e non.

Insomma, ho passato quasi due ore a sfogliare pagine e pagine, avanti e indietro, lasciando che l’occhio cadesse ora su una parola sconosciuta ora su un’altra tanto amata, ora sulla Prefazione ora sulle Avvertenze, in una beatitudine totale. E a un certo punto ho capito, esattamente, cosa mi sono persa in questi anni, anni di vocabolari digitali, risorse telematiche, enciclopedie online. Cosa ci stiamo spaventosamente perdendo.

Mi sono persa la dignità, il senso, la pienezza che solo un’opera completa, dalla sua prima alla sua ultima pagina, può possedere e offrire. Un’opera concepita e realizzata da qualcuno con cura e con rigore, con una precisa architettura interna, con precisi criteri e obiettivi, dichiarati e chiariti, tutti elementi che si possono cogliere solo in un’opera completa, dalla sua prima alla sua ultima pagina. Un sapere organizzato, strutturato, organico, ragionato, giustificato, che dunque si offre anche come “modello” di sapere e di conoscenza. Tutto il contrario di quanto avviene consultando una singola voce su un dizionario o su una enciclopedia online, che non possono che offrire un sapere disperso e frammentato, pillole di conoscenza destinate a perdersi in un mare magnum di altre pillole. E se questo è vero per un vocabolario, destinato appunto a essere consultato e non propriamente letto, figuriamoci per tutto il resto. C’è anche un altro aspetto: un vocabolario o un volume di un’enciclopedia, tenuti fisicamente in mano, soppesati con gli occhi nella loro mole, comunicano immediatamente a chi li sta sfogliando la misura dei propri limiti, della propria abissale ignoranza rispetto alla totalità del sapere; inducono umiltà, consapevolezza; accendono scintille. Tutto il contrario del sapere offerto virtualmente in rete, tanto più illusorio quanto più potenzialmente infinito, perché appunto non si è in grado di percepirne l’estensione, la complessità, e che fa così nascere la presunzione di poter sapere tutto o, peggio, di tutto già sapere. Un sapere inoltre falsamente democratico, proprio nella sua apparente immediata accessibilità, e che invece produce un’ulteriore divaricazione tra chi semplicemente non sa e crede di sapere (i più), e chi non sa ma almeno sa di non sapere (i pochi). E questo genera conseguenze devastanti in un Paese e in una civiltà, dove conoscenze sia pur diffuse ma approssimate, frammentarie, superficiali, comunque scarse e non critiche, producono una generale, drammatica ignoranza. L’avevi già capito tu, Giacomino mio: «Dove tutti sanno poco, e’ si sa poco»…

Ma il discorso è più ampio, e investe in generale le nostre modalità di comunicazione e di conoscenza, sempre più virtuali, sempre più incorporee. A volte mi sembra di vivere, paradossalmente, in una specie di Medioevo, in cui la “dematerializzazione” imperversante e sempre più spesso coatta costituisce una sorta di nuovo ascetismo che deprime, svilisce e nega ogni dimensione fisica, ogni esperienza sensoriale. Abbiamo a disposizione infinite “risorse telematiche”, modelli 3D dell’universo, rappresentazioni digitali di ogni possibile immaginabile realtà, ma è come far l’amore con un avatar su Second Life invece che con un corpo in carne e ossa, oppure come stare ore e ore a guardare video su blog di cucina invece che armarsi di coltello e forchetta davanti a una fiorentina, magari a San Gimignano (che razza di paragoni, Daniela…).
Sogno un nuovo Umanesimo che ridia dignità al corpo, all’esperienza sensoriale, alla materialità. Che riconosca e affermi che la conoscenza, la consapevolezza e la strutturazione di sé e del mondo passa anche e soprattutto e prioritariamente attraverso i sensi. Per esempio, attraverso un vocabolario tenuto in mano. Sia chiaro: non sono così ottusa da non capire che un modello 3D dell’universo è un tantino più comodo che catapultarsi su Marte, e non sono così troglodita da non capire che sostanzialmente non c’è differenza tra le pagine di un libro e le schermate di un Kindle o di un IPad, tra un supporto cartaceo e uno digitale, con tutti i vantaggi anzi nel secondo caso della portabilità, dell’economicità, della sostenibilità ecc. ecc. ecc.
In fondo, volevo solo dire che un libro è un libro.

Ma ormai è chiaro che queste sono solo le farneticazioni nostalgiche di chi passa mezzo pomeriggio rintanata in cucina a sfogliare un vocabolario. Di chi non è neppure coerente, visto che non sta usando esattamente carta, penna e calamaio…
Quindi adesso, dopo tutto ‘sto sproloquio… vado a guardarmi un film su Sky, in 4K Ultra HD, sullo strabiliante televisore nuovo.




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