domenica 27 dicembre 2015

Quero, terei

Quero, terei.
Se não aqui,
Noutro lugar que inda não sei.
Nada perdi.
Tudo serei.
Fernando Pessoa, Poesias Inéditas (1930-1935)

lunedì 21 dicembre 2015

“Almanacchi, almanacchi nuovi…”



Tra le migliaia di pagine che, anno dopo anno, leggo e rileggo in classe ce n’è una che, anno dopo anno, mi turba e mi sommerge ogni volta di più. Quest’anno avrei addirittura preferito non doverla proprio leggere. Strano che questo capiti con ciò che si ama di più.
Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere: cinquanta righe indefinibili, di cupa e greve leggerezza. Per anni ne ho fatto un piccolo, piccolissimo regalino di Natale agli alunni di quinta: una fotocopia arrotolata a mo’ di papiro e legata con un nastrino rosso, una ciascuno; nelle mie intenzioni voleva essere un invito a non smettere di sognare, a non smettere di credere nel futuro, nonostante tutto, nonostante tutto. Beh, ho smesso: quello che mi sembrava un augurio pieno di tutto il mio affetto mi apparirebbe oggi una perfidia cinica e quasi sadica.
Forse, oggi il mio affetto si esprime proprio così, in questo tacere loro le disillusioni che li aspettano (o almeno nel non rincarare la dose rispetto a quanto già spiegato in classe). Del resto, più si invecchia e più si impara che l’amore, a volte, è fatto di silenzi ben più che di parole.
So solo che quest’anno, quando sono arrivata a leggere «Quella vita ch'è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura», la voce mi si è incrinata, il naso ha cominciato a pizzicarmi. Li ho guardati, e sono stata travolta da un’ondata di tenerezza. E di pena.

Ma quest’anno della mia tenerezza e della mia pena leopardiane non avrebbero saputo che farsene, e anzi non hanno saputo che farsene, in generale, di tutte le mie belle spiegazioni e commozioni. Quest’anno Leopardi non è proprio riuscito ad affascinare, a sedurre cuori e menti, generando anzi un netto rifiuto, un’insofferente avversione. I ragazzi hanno eretto un muro spesso, impenetrabile: nessuna empatia con l’Islandese, nessuna identificazione con Saffo, nessuna sintonia con Tristano. Di più: «diman tristezza e noia / recheran l’ore» ha fatto chiudere rumorosamente il libro a un paio di loro, e quando, tutta ispirata, ho detto che, come per il pastore errante, l’importante non è trovare delle risposte ma porsi delle domande mi hanno guardato come se mi fossi fumata qualcosa di troppo…
Eppure per me, alla loro età, Leopardi fu un innamoramento totale: abissi di tetraggine in cui mi crogiolavo compiaciuta, come la maggior parte dei miei coetanei.

Dunque, cosa può essere successo?
Mi assolvo (con un po’ di presunzione) dall’ipotetica colpa di non essere più sufficientemente chiara o coinvolgente nelle spiegazioni, e assolvo loro da facili accuse di svogliatezza o fannullaggine, ché anzi hanno seguito con devota concentrazione, preso appunti diligentemente, preparato le interrogazioni in pomeriggi di studio matto e disperatissimo.
Il fatto è che, temo, al pessimismo leopardiano ci ho aggiunto il mio (accoppiata micidiale), e i ragazzi se ne sono ritratti infastiditi e ostili. E il fatto è che noi, alla loro età, avevamo di fronte ben altro futuro; nessuno nutriva dubbi sul fatto che quel futuro l’avremmo agguantato e fatto nostro: un lavoro, una casa, una famiglia… Tutto sembrava -ed era- possibile. Sì, potevamo permetterci il lusso di essere pessimisti.

Forse, quanto più il futuro appare -ed è- buio e privo di certezze, persino di promesse, tanto più la giovinezza si crea illusioni e speranze, in un feroce e indomabile istinto di sopravvivenza in cui non c’è spazio per compiaciuti e intellettualistici pessimismi.
E forse, forse, è questo quello che ci salva.