lunedì 22 giugno 2015

La teoria (e la pratica) del complotto



Da qualche mese i miei figli mi prendono in giro: dicono che sono diventata una ‘complottista’, ovvero che tendo a vedere complotti e cospirazioni anche là dove non esistono.

Può darsi. Sono per natura diffidente e sospettosa, il che inquina non poco i miei giorni e le mie relazioni. Guarda caso, però, tutte le volte che ho sentito puzza di bruciato qualcosa di bruciato c’era davvero. Col tempo ho imparato che in alcuni casi è meglio lasciar perdere, che è meglio non cercare di trovar conferma ai propri dubbi: la delusione e il dolore che si prova non sono compensati dalla soddisfazione di poter dire “lo sapevo”. In altri casi, forse perché il coinvolgimento è meno profondo o forse perché una sana arrabbiatura, ogni tanto, è terapeutica, ho dato spazio alle perplessità e al detective (detego, detegĕre... latino, quanto ti amo!) dilettante che c’è in me.

E veniamo al dunque: Maturità 2015 (“Nooo, ancora scuola?” Sì, ancora scuola. Oltre a darmi della complottista mi si rimprovera anche di non saper mai ‘staccare la spina’, ed è vero).

Della Prima Prova di questa Maturità non starò a soffermarmi sugli scivoloni madornali, sulle sviste, sui refusi, sulle imprecisioni presenti nelle tracce e nei documenti allegati: l’ha già fatto tutta la stampa nazionale, con sufficiente tempestività e sufficiente completezza(solo sufficiente, perché gli errori e le leggerezze sono molto più numerosi di quelli rilevati). Peraltro, nessuna spiegazione, nessun chiarimento è giunto dal Ministero. “Scusa” rimane la parola più difficile da dire, a dimostrazione che l’arroganza si accompagna spesso alla superficialità e al pressapochismo, sempre all’ignoranza. Così, appare oltremodo ridicolo da parte del Ministero lo sbandieramento del lavoro “certosino” portato avanti da mesi dalle varie titolatissime commissioni di esperti; forse era meglio un lavoro anche solo ‘francescano’, ma decente. Non mi soffermerò neppure sull’evidente asimmetria con cui sono stati formulati argomenti e tracce, in uno stile nominale e telegrafico alcuni, in una forma prolissa e sciatta altri, tanto per confermare l’assenza di una revisione finale che assicurasse quantomeno omogeneità e coerenza; ciò si nota anche nel carattere dei documenti, impegnativi e al limite della comprensibilità alcuni, di una banalità disarmante altri, e poi ancora nel diverso modo di rivolgersi agli studenti, con un amichevole “tu” o con un più formale “il candidato”. E non commenterò neanche l’evidente confusione di tipologie, per cui il tema storico e quello “di ordine generale” finiscono con l’assomigliare ad una analisi del testo mentre la vera analisi del testo è ridotta a tre striminzitissime domande (su Calvino, a cui nessun programma arriva mai...).

No, non parlerò di tutto questo. Voglio parlare di come si possa strumentalizzare un Esame di Stato per fini che nulla hanno a che vedere con la necessità di saggiare preparazione e capacità critiche dei candidati quanto piuttosto con la volontà di creare un’ennesima cassa di risonanza per iniqui programmi politici, interessi di poteri forti, vuota retorica.

Dunque. Il saggio di ambito socio-economico propone come argomento “Le sfide del XXI secolo e le competenze del cittadino nella vita economica e sociale”. Ora, in tale frase sono presenti tre parole che, variamente declinate, hanno fatto e fanno parte della assordante propaganda del Governo da più di un anno: “sfide” (per ora tutte perse...), “competenze”, “economica”. Stendiamo un velo pietoso sulle sfide. Che l’economia sia invece l’unico settore di interesse per il Governo appare ovvio, un po’ per la situazione drammatica in cui versa l’Italia un po’ perché è proprio il potere economico quello che ha portato in Parlamento Matteo Renzi: il fatto che si sia scelto un documento (nel quale compaiono tutte e tre le parole) a firma Ignazio Visco, attuale Governatore della Banca d’Italia, non ha bisogno di commenti. Ma è la parola “competenze” quella che risulta più martellante, ovvero la parola su cui più è stata costruita la comunicazione di questi ultimi mesi e, purtroppo, la sostanza di questi ultimi anni. Le ‘competenze’, nel gergo pedagogico-didattico e non solo, indicano il ‘saper-fare’, ponendosi a metà strada tra le ‘conoscenze’ (il semplice ‘sapere’) e le ‘capacità’ (il ‘saper-essere’). È vero che da qualche tempo il termine ‘competenze’ ha ampliato il proprio significato, inglobando parzialmente quello degli altri due, ma è anche vero che ha conservato la propria peculiarità, ovvero il riferimento a un sapere applicato, operativo, basato sulla messa in atto di tecniche e procedure. Il termine ‘capacità’, al contrario, indica il possesso di un pensiero critico, di un’identità intellettuale, culturale, sociale, politica. In altre parole, le competenze permettono di risolvere problemi pratici a fini produttivi, le capacità permettono consapevolezza di sé e del mondo, indipendenza di pensiero, libertà. Ovviamente una cosa non esclude l’altra, anzi, ma nel disegno di legge sulla “Buona Scuola”, al lordo degli emendamenti in discussione al Senato, su 139 pagine il termine “competenze” ha 61 ricorrenze (le ho contate), il termine “capacità” 3 (tre!): cosa se ne deve dedurre? Se ne deve dedurre che il Governo in carica, sostenuto e pressato da precisi poteri, ha in mente inequivocabili obiettivi: formare lavoratori competenti, efficienti, obbedienti e... ottusi, dunque politicamente innocui. È il mondo del lavoro che lo richiede, quello stesso “mondo del lavoro” presente in maniera ossessiva nel testo del disegno di legge (strano, no?, in una riforma che dovrebbe occuparsi di SCUOLA...), quello stesso mondo che ha suggerito e imposto la dissennata “alternanza scuola-lavoro”, ovvero centinaia di ore che gli studenti saranno obbligati a prestare gratuitamente sottraendole alla propria formazione e, soprattutto, alla propria giovinezza.

E se qualcuno avesse qualche dubbio sugli obiettivi del Governo vada a vedersi la Seconda Prova propinata agli studenti del Liceo delle Scienze umane (ovvero quelli che, guarda caso, dovrebbero poi dedicarsi all’insegnamento...). Con il titolo “Il valore del lavoro nell’educazione dei giovani” si propone un testo tratto da un saggio di pedagogia del 1966 (mmmh, aggiornatissimo!) in cui si legge:


Osservate un bambino, al quale il babbo abbia chiesto aiuto per scaricare un carro di legna; egli lavorerà contento e felice. Osservatelo ora che va alla scuola tradizionale: nessuna gioia sul volto. Eppure egli lavorava volentieri. Rendete la scuola bella come il lavoro [...]”

E no signori! La scuola è bella perché è scuola, e nessuno può privarla della sua sacrosanta identità e della sua funzione, ovvero quella di formare cittadini liberi e consapevoli, e non felici perché possono “scaricare un carro di legna”!

Per concludere il discorso sul saggio di ambito socio-economico, non è apparentemente chiaro cosa abbia indotto gli estensori delle tracce a inserire tra i documenti il passo estratto dal saggio di Martha Nussbaum. Le affermazioni contenute, infatti, vanno in direzione opposta rispetto a quelle di Visco: si esorta all’insegnamento di materie umanistiche e artistiche, si mette in guardia dalla “spinta al profitto” e, coerentemente, non si parla di competenze bensì di capacità (6 ricorrenze contro 1, in cinque righe), “essenziali per la salute di qualsiasi democrazia”. Il passo potrebbe allora giustificarsi come una sorta di contentino concesso a un sapere indipendente e alla libertà di pensiero, quasi un modo per non rendere la messinscena troppo evidente, ma non credo sia così: temo non ci si sia neppure accorti della contraddizione e che si sia scelto il passo solo per quel “buona istruzione”, che poteva rimandare a “Buona Scuola”, e per la presenza di quell’unico “competenza”, che ha però nel contesto in cui è inserito tutt’altro significato.

Veniamo al saggio di ambito storico-politico. Qui i documenti, prolissi e poco chiari, lasciano trasparire con evidenza da un lato il rifiuto dell’Unione europea ad accettare ed integrare in sé le popolazioni dell’altra sponda del Mediterraneo, dall’altro le mire imperialistiche dell’Europa stessa, mai sopite e anzi riaccese dopo la Primavera araba e la procurata caduta di Gheddafi. E quanto l’Italia sia invischiata nella politica estera dell’UE lo testimonia l’elezione di Federica Mogherini (già Ministro nel Governo Renzi) alla carica di Alto Rappresentante dell’UE per gli affari esteri, la stessa carica cui si fa compiaciuto riferimento in uno dei documenti del saggio.

E arriviamo velocemente alla tipologia C, tema di argomento storico. Qui, nella richiesta pretestuosa di illustrare le fasi salienti della Resistenza, definita “episodio” (?!),  si propone un documento tratto dal sito “Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana”. Ora, a parte la già osservata impostazione della traccia, più simile a un’analisi del testo che a un tema storico, a parte l’orrida modalità di citazione della fonte, tale per cui qualche studente avrà pensato a Jacopo Ortis (e pensare che sul sito in questione è presente una specifica pagina su come “Citare le fonti”...), il documento non pare proprio rappresentativo delle motivazioni storiche e politiche che portarono alla Resistenza (a questo proposito sul sito sono presenti lettere ben più significative). Il documento appare piuttosto un modo per dar voce alla grancassa propagandistica renziana, un modo per gettar fumo negli occhi degli italiani distraendoli dalla situazione presente e sventolando un futuro glorioso quanto improbabile. Nella peggior retorica del ventennio (più che giustificabile nell’anno in cui la lettera fu scritta ma improponibile oggi) si legge infatti di un’Italia “potente senza minaccia, ricca senza corruttela (ah ah, di questi tempi?), primeggiante, come già prima, nelle scienze e nelle arti, in ogni operosità civile, sicura e feconda di ogni bene nella sua vita nazionale rinnovellata”.

Per concludere, in questa Maturità 2015 sono state proposte tracce e documenti che forse volevano indottrinare un’ultima volta gli studenti, prossimi elettori, di certo volevano rivolgersi anche e soprattutto ad altri destinatari: ai docenti, per ribadire l’impostazione e i contenuti della Riforma; agli italiani in generale, per ostentare una sicurezza realisticamente assai poco fondata; ai poteri forti, per rassicurarli dell’asservimento ai loro diktat. Ma già Prezzolini, nel ’23, auspicava la costituzione di una “Congregazione degli Àpoti”, composta cioè da “coloro che non se le bevono”...

Insomma sarò anche una complottista, per di più esasperata dall’ignoranza e dall’arroganza dilaganti, e dunque forse ho dato una lettura delle tracce prevenuta e di parte. Una cosa però mi è chiara, e questa credo sia incontrovertibile: i ragazzi, i miei ragazzi e quelli di tutta Italia, sono stati chiamati a scrivere su argomenti fumosi, su cui non potevano avere conoscenze specifiche, oppure su argomenti pretestuosi; sono stati ingannati e calpestati, e insieme a loro chi ha cercato in questi anni di prepararli e di educarli.
Non è questa la buona scuola.

Mi rimaneva una curiosità: qual è l’origine della parola “complotto”? Leggo su un dizionario etimologico che il termine italiano deriva dal francese complot ma che la formazione è incerta, forse dal latino complicitum, o complex, o complicare. In ogni caso è un gallicismo che vale per “segreto concerto per un fine il più spesso colpevole”.

Appunto.


mercoledì 17 giugno 2015

Veline e veleni



In questi ultimi mesi, da quando il ddl sulla “Buona Scuola” ha iniziato il suo percorso, la campagna di denigrazione dei docenti non ha conosciuto soste, ivi compresa la pagliacciata di un Renzi-maestrino con lavagna e gessetti. Nelle ultime settimane, però, tale campagna si è fatta oltremodo massiccia e strisciante, con l’impiego di strategie e di metodi che dovrebbero preoccupare tutti e che confermano quanto, in Italia, libertà e democrazia siano solo ormai parole vuote. Quando in uno Stato il controllo dell’informazione viene attuato attraverso la manipolazione dell’informazione stessa e non, banalmente, attraverso la censura, esso risulta particolarmente pericoloso proprio perché in apparenza inesistente e dunque difficilmente smascherabile. Oggi tutto questo accade, sta accadendo, per quanto riguarda la scuola, e ‘solo’ per far convertire in legge una riforma iniqua e dissennata voluta e imposta da poteri forti neanche tanto oscuri, ma domani potrebbe accadere per questioni ancora più importanti: la completa cessione della sovranità nazionale, per esempio, non è lontana.


Quando, venti giorni fa, Alessandro D’Avenia pubblicò nella sua rubrica su “La Stampa” la lettera di una studentessa che sparava a zero sugli insegnanti (a suo dire incompetenti, fannulloni, burini), mi irritai profondamente. Non con la studentessa, ovvio, ma appunto con D’Avenia, il quale, essendo un collega, non mi sembrava proprio aver scelto il momento migliore per dar voce ad accuse becere e rozze contro gli insegnanti esattamente nei giorni dell’iter parlamentare della “Buona Scuola”. Peraltro, tutti i suoi articoli pubblicati nel mese di maggio hanno toccato i punti più contestati della riforma abbracciando sempre e soltanto il punto di vista e gli obiettivi di chi quella riforma l’ha ideata e concepita. Basti, tra i tanti, uno stralcio:
“... non ci si può più permettere di avere un sistema che, nonostante le molte eccezioni, permette a una cerchia di insegnanti senza competenze educative, e talvolta ignoranti, di rimanere intoccabili. Per questo, io sto con una riforma che finalmente potrebbe permettere di premiare i capaci e sostituire i non adatti.  [...] in un mondo del lavoro che [...] si presenta estremamente competitivo [...] mi sembra fuori dal mondo che la scuola viva in un isolamento dorato che permette a chi non merita di insegnare. Ma chi dovrebbe giudicare il merito? Dato il ruolo del preside credo che la sua sia la figura naturale a cui affidare l’incarico.”
Dunque, oltre allo scontatissimo auspicio dell’avvento di dirigenti scolastici dai poteri illimitati, se ne deduceva che gli insegnanti competenti, colti, attenti ai bisogni educativi dei loro alunni sono “eccezioni” (d’altra parte, la percentuale di docenti “capaci” cui dovrebbe andare l’elemosina prevista dalla riforma come riconoscimento economico è calcolata in meno del 5%, il che significa che tutti gli altri, ovvero più del 95%, sarebbero 'incapaci'...). Se ne deduceva anche che la scuola deve prioritariamente formare al “mondo del lavoro”, adottandone i meccanismi; cultura e libertà, quelle, non interessano evidentemente a nessuno.
Per questo è risultato nauseante il tono moralistico e autocelebrativo con cui D’Avenia, negli articoli, ha pontificato circa la necessità per i docenti di saper ispirare amore per i classici, educare prima che istruire, ‘erotizzare’ l’ora di lezione e via di questo passo, infarcendo il tutto con compiaciute citazioni che spaziano da Hölderlin a Huxley.
Mi ha fatto invece un’estrema tenerezza, diciamo così, il fatto che ogni articolo fosse sempre accompagnato da puntuali informazioni su chi sia Alessandro D’Avenia (e quanti anni ha, e in cosa è addottorato, e cosa ha scritto, e quali e quanti film sono stati tratti dai suoi romanzi, ecc. ecc.), informazioni che mi sanno tanto di finalità autopromozionali quanto di scarsa autostima: Umberto Eco, per dire, non ha certo bisogno di far seguire alcunché alla propria firma.

Ma lasciamo Alessandro D’Avenia a se stesso (poverino). Sempre nel mese di maggio, e anzi proprio nel giorno che ha visto scioperare centinaia di migliaia di docenti contro la riforma, mi aveva già lasciato perplessa l’intervista a Paola Mastrocola nella quale l’esimia collega affermava di non aver capito “su che cosa scioperiamo”, pontificando pure lei sulla “scarsa qualità degli insegnanti”. Ora, conosco personalmente la Mastrocola; ne ho sempre apprezzato l’indipendenza di pensiero, l’amore appassionato per la cultura, le posizioni duramente critiche su riforme che hanno snaturato la dignità e le finalità della scuola, e adesso? adesso viene a dire che “l’approccio dovrebbe essere meno ideologico e più pragmatico” e che “dobbiamo dare il potere a qualcuno di decidere”? Che le è successo, così, improvvisamente?
Insomma in entrambi i casi, D’avenia e Mastrocola, mi sono sentita tradita da due colleghi che, anche per la loro visibilità, avrebbero potuto e dovuto sostenere la causa degli insegnanti invece che contribuire ad affossarla. A dirla tutta, mi sono anche sentita un po’ cretina, visto che da anni propongo agli alunni i romanzi dell’uno e dell’altra.

È poi di dieci giorni fa la lettera di un’altra lettrice, questa volta inviata alla rubrica di Beppe Severgnini sul “Corriere” e puntualmente pubblicata. Anche qui accuse becere, basate sul pregiudizio e sulla disinformazione; anche qui, nei giorni precedenti e successivi, una serie di mail simili e di relativi commenti di Severgnini a base di faziosi giudizi sugli insegnanti, “quelli che giocano col telefonino in cattedra”, con la richiesta di dare ai dirigenti scolastici “la facoltà di allontanare gli insegnanti inadeguati, incompetenti e svogliati”. Anche qui la mia irritazione profonda, profondissima: Beppe, tu quoque? Tu, che sei nato e cresciuto all’ombra di Indro Montanelli, ovvero di un giornalismo indipendente, al limite del suicidio editoriale e dell’eroismo personale? Tu, che sei un modello di ironia e di scrittura, i cui manuali utilizzo da anni (doppiamente cretina...) per tentare di insegnare a scrivere meglio? Tu, anche tu? Ma cosa vi hanno promesso, a te, a D’Avenia, alla Mastrocola? Una poltrona da sottosegretario? L’accesso al gotha di non si sa quale élite? Non esiste infatti altra spiegazione per giustificare l’improvvisa perdita di lucidità, l’improvvisa adozione di stereotipi e logori luoghi comuni, l’improvvisa genuflessione al potere. Per citare proprio Indro Montanelli, “da quali ometti è rappresentato questo povero giornalismo italiano!

Ero convinta, in sostanza, che giornalisti e intellettuali (pseudo-intellettuali, molto pseudo...) fossero semplicemente diventati ‘servi del potere’, secondo una definizione un po’ trita ma, in ogni tempo, chiara ed efficace. Poi, poi, poi... qualcosa non mi tornava, qualcosa era troppo ovvio. Sono andata a rileggermi con attenzione le ‘lettere’ pubblicate e ho avuto un’illuminazione (come avevo fatto a non accorgermene prima?): quelle lettere sono false! non esiste nessuna ‘studentessa’, nessun ‘metalmeccanico’! Quelle lettere sono costruite e scritte ad arte, e poi fatte pubblicare sui giornali e negli spazi che più e meglio avrebbero garantito risonanza nazionale, fornendo una precisa immagine degli insegnanti e una precisa impressione di un’opinione pubblica compatta e schierata contro. Scriveva Prezzolini, nel 1923 (!): “Caro Gobetti, oggi tutto è accettato dalle folle: il documento falso, la leggenda grossolana, la superstizione primitiva vengono ricevute senza esame, a occhi chiusi, e proposte come rimedio materiale e spirituale”. Dopo trent’anni passati a leggere e correggere scritti di sedicenni e diciottenni posso assicurare che la lettera pubblicata da D’Avenia non è opera di una studentessa, non perché sia scritta male o bene, ma semplicemente perché il lessico, le espressioni, la struttura del testo non appartengono alla scrittura di uno studente. Nella lettera pubblicata da Severgnini, invece, a parte le inesattezze o le castronerie sulla posizione di metalmeccanici e insegnanti (combinazione, ho un marito metalmeccanico e sono un’insegnante...), quel che fa venire dubbi sono i precisi riferimenti all’Invalsi o ad altre strutture di valutazione, così come in altre lettere i riferimenti a Indire o Eurydice, o acronimi come CCNL, ovvero elementi che non fanno normalmente parte delle conoscenze e delle argomentazioni di un italiano medio. Stupisce, inoltre, il costante riferimento al “mondo del lavoro” o alla “buona scuola”. C’è di più: le lettere pubblicate nella rubrica di Severgnini sugli argomenti più svariati sono tutte corredate dell’indirizzo mail del mittente, ovvero in genere nome e cognome più l’estensione del provider (libero, gmail, ecc); bene, le lettere ‘dubbie’ non riportano nome e cognome, bensì strane successioni di lettere e numeri; sono andata a controllare: si tratta di avatar, cioè nomi-utenti che vengono di solito assegnati, per ragioni di privacy o di praticità, al personale di grandi aziende, o a studenti di grandi istituti, o a dipendenti di ministeri... motivo per cui mi sono ben guardata dal rispondere a interventi provocatori o decisamente offensivi, hai visto mai che venga schedata come sovversiva o anche solo non allineata...

Rimane una domanda: chi ha scritto le lettere? Le ipotesi sono solo due: o l’asservimento di Severgnini e D’Avenia è talmente inverecondo da averli persuasi ad accettare di scrivere di proprio pugno simili sconcezze, fingendosi lettori qualsiasi, oppure in qualche meandro del Ministero e del Governo è all’opera in questi mesi una task force con il preciso compito di controllare, dirigere e manipolare l’informazione, adottando i metodi più viscidi e, ahimè, più efficaci. Escludo la prima ipotesi: un giornalista brillante e uno scrittore pur non eccelso non riescono proprio, anche sforzandosi, a scrivere male, ingenuamente male; se davvero avessero voluto fingersi lettori qualsiasi sarebbero risultati infinitamente più credibili.
Resta dunque la seconda, molto più plausibile anche perché confermata da mesi e mesi di informazione propagandistica o al contrario reticente, capziosa quando non decisamente falsa; alcune espressioni presenti nelle lettere in questione, poi, trovano preciso riscontro nelle mail istituzionali inviate alle caselle di posta dei docenti da parte della segreteria del Ministero o dal Presidente del Consiglio in persona. Insomma ci è stata risparmiata (finora...) l’immagine di Renzi a torso nudo in un campo di grano, ma la finalità di costruire e manipolare l’opinione pubblica è la medesima, solo perseguita e realizzata con strategie più subdole e più scaltre.

In tutto questo, quale ruolo hanno giocato Severgnini e D’Avenia? Quali istruzioni e pressioni hanno ricevuto per dare spazio nelle loro rubriche a finte lettere di finti cittadini? Davvero hanno tradito così i lettori e, in fondo, se stessi? A meno che... a meno che non si voglia supporre che fossero e siano totalmente all’oscuro dell’operazione, e che abbiano pubblicato le mail credendole vere. Nel primo caso saremmo di fronte a giornalisti collusi, nel secondo caso ingenui e sprovveduti. Non so quale dei due panorami sia più desolante.