domenica 8 marzo 2015

Donami, Musa, Graziose Parole




Girovagando su Internet mi sono imbattuta in uno degli ultimi articoli di quella piccola, geniale, poliedrica, meravigliosa donna che è Annamaria Testa. Il suo sito, nuovoeutile, è una miniera quasi inesauribile di spunti, suggerimenti, moniti, riflessioni per chiunque ami comunicare, per pratica professionale o per pura passione.

Nell’articolo, dicevo, Annamaria Testa propone “un gioco che è anche un piccolo rito beneaugurante”. Si tratta di isolare le iniziali del proprio nome e cognome aggiungendo prima di quest’ultimo anche le eventuali iniziali del proprio secondo e terzo nome di battesimo, e magari pure quelle di diminutivi e vezzeggiativi. Ne dovrebbe venir fuori una successione da due a cinque-sei lettere, vocali e/o consonanti. A quel punto si devono trovare parole che inizino con quelle lettere, parole che costituiranno il proprio “motto”: un augurio, un proposito, una speranza.

Non ho resistito: da sempre gioco con le parole, fin da bambina (“Linea della pagina” ne è un esempio...), per divertimento o per necessità. Ricordo quando, giovanissima supplentina, mi ritrovai ad affrontare una classe di piccoli delinquenti, all’estrema periferia di Torino (“delinquenti” non è una affettuosa metafora: alcuni provenivano dal carcere minorile, altri ci sarebbero finiti di lì a poco); impensabile intrattenerli con Achille o con Enea, meno ancora con coniugazioni  e  complementi.  Armata di quell’indimenticabile  e  folgorante capolavoro  che  è  I Draghi locopei, uscito proprio quell’anno, iscrissi allora tutta la classe a un concorso indetto da La Stampa e curato da Giampaolo Dossena: si chiedeva di “giocare” con nomi e cognomi costruendo anagrammi, acronimi, slogan. Non vincemmo, naturalmente, ma ci guadagnammo una menzione speciale e una fornitura di libri, e tanto bastò per assicurarmi credito sufficiente a sopravvivere fino alla fine dell’anno scolastico...

Non ho resistito dunque, e ho giocato. Alle lettere di nome e cognome, D P, ho aggiunto quelle del secondo e  terzo  nome  di battesimo  (Maria Giuseppina),  ed  ecco  quel che mi è venuto fuori da D M G P:
Desidero Materializzare Grandi Progetti (ma non ci riuscirò mai...)
Debello Malattie Guarendo Pazienti (se fossi un medico...)
Do Meritate Giuste Punizioni (quando sono presa dal delirio di onnipotenza...)
Domino Mondi Girando Pagine (il potere della lettura...)
Detesto Manzoni, Giovenale, Petronio (ognuno ha le proprie inconfessate antipatie...)
e infine, appunto,
Donami, Musa, Graziose Parole
(anche se Dolgono Mani, Ginocchia, Piedi, ché ogni tanto la mia artrite si riacutizza...).

Un giochino che si può provare ad estendere anche alle iniziali di amici/amiche e conoscenti, ricavandone quel che ne pensiamo più o meno inconsciamente. Per esempio:
GD = Gestiva Docenti
LG = Limpidamente Generosa (ma anche Leccornie Garantite...)
SV = Sovrumana Venustà
ES = Energie Sorridenti
ecc. ecc.
Conosco poi qualcuno che, nella sua infinita presunzione, trasformerebbe le proprie iniziali in un “Come Me, Dio!”

Un bel giochino insomma, ma non solo.

Se si riesce a non razionalizzare troppo, se ci si abbandona alla suggestione di quelle lettere e a ciò che esse in-mediatamente evocano in noi, si avrà uno spaccato di ciò che siamo o crediamo di essere, un’immagine riflessa, uno sguardo sull’inconscio.
La libera associazione di parole, ovvero di concetti, a stimoli di per sé privi di significato (lettere, figure, altre parole) è d’altra parte una delle tecniche utilizzate in psicoanalisi per l’indagine della personalità: “test proiettivi”, si chiamano. Uno dei più noti è il test di Rorschach: al soggetto viene sottoposta una serie di tavole su cui sono riportate delle macchie d’inchiostro simmetriche, monocromatiche o colorate, e gli viene chiesto di verbalizzare tutto ciò che quelle immagini gli evocano sulla base delle somiglianze individuate con altre realtà per forma, colore o posizione. Le macchie vengono solitamente interpretate come figure umane, fiori, animali, angeli o mostri, ma possono anche venir associate a concetti astratti: affiorano così paure inespresse, fissazioni, fantasmi, pensieri inconsci, che il soggetto proietta appunto su quella macchia di per sé assolutamente priva di senso.
Il giochino delle iniziali funziona nello stesso modo: se ci si lascia andare, se si accetta di far emergere il proprio io più profondo, si può entrare in contatto con parti di sé inesplorate o represse, e tutto questo a partire da quattro insignificanti letterine.

A volte, però, quello su cui butti lo sguardo è un baratro, un abisso, e te ne allontani subito terrorizzata. Hai visto quello che non volevi vedere.
Lì per lì, a me, quelle quattro lettere suggerivano solo parole tristi e luttuose: malattia, morte, dolore, pena. La prima frase sensata che mi è venuta in mente non l’ho neanche scritta, e anzi me ne sono ritratta angosciata e inorridita.

Nosce te ipsum”, diceva qualcuno. Non è detto che sia né facile né piacevole.


P.S. Uff, ma perché non riesco mai a giocare e basta?