giovedì 17 gennaio 2013

Consecutio mon amour




Correggere in successione decine e decine di compiti in classe, uno dopo l’altro, ha i suoi lati positivi. Non per una masochistica voluptas dolendi, e neppure per la serie di assurdità più o meno tragicamente esilaranti che ti tocca leggere, quanto perché si ha uno spaccato altrimenti inarrivabile dello stato attuale dei cervelli giovanili. Cavandosi gli occhi su grafie sempre più indecifrabili si ha la possibilità di osservare, quasi come dentro una bolla di vetro, il funzionamento di sinapsi, meccanismi di connessione, trasmissioni neuronali.
O la loro assenza.

Tra le caratteristiche più ricorrenti della scrittura dei sedici-diciassettenni ce n’è una che si impone di gran lunga su tutte le altre: l’assoluta insensibilità a qualsiasi forma di consecutio temporum. Tutto è spalmato su un eterno presente, senza prospettiva e senza profondità, e il presente è quasi l’unico tempo verbale utilizzato; al massimo compare qualche timido passato prossimo, e impropriamente usato. Le frasi sono tutte del tipo “domani FACCIO...”, “tra un anno, quando HO FATTO questo, FACCIO quest’altro...”, “tre anni fa, dopo che HO FATTO questo, HO FATTO quest’altro...”, e così via. Futuro semplice e passato remoto sono una rarità, per non parlare del trapassato o del futuro anteriore.

Ora, la consecutio è alla base della strutturazione logica del pensiero, o meglio è la “forma” (linguistica) in cui si esprime la “sostanza” (logica) del pensiero. E questa sostanza è strutturata normalmente su rapporti causa/effetto, antitesi/analogia, prima/durante/dopo; una sostanza che trae dall’uso continuo della sua espressione linguistica un ulteriore consolidamento, così come l’espressione linguistica riceve una maggior chiarezza da meccanismi mentali logicamente strutturati, in una reciproca, virtuosa, influenza. Una “forma mentis”, appunto.
Dunque, cosa bisogna dedurre dall’assenza di consecutio negli scritti dei sedicenni di oggi?

La risposta non è affatto scontata, o meglio non esaurisce la questione. Certo, quel che emerge è che nei temi mancano del tutto le connessioni logiche, oppure sono incoerenti, prive di senso: “poiché” è usato come indifferente alternativa a “infatti”, o a “però”, o a “quindi”. Spazio e tempo sembrano inoltre aver cessato di essere categorie che permettano di classificare il reale, né viene colta più la differenza tra finzione e realtà; così, capita di leggere che Orlando era un cavaliere di Napoleone, che Francesca è stata rapita dai bravi o che Cesare incontrò Ettore a Cuba (sic). Sempre più totale appare poi la refrattarietà al latino, ovvero verso una lingua che, non a caso, ha nella consecutio uno dei suoi pilastri, e che in generale esprime nelle proprie strutture una visione del mondo logica e rigorosamente consequenziale.

Ancor meno scontata è la possibilità di “sanare” la situazione. È vero, io non mi arrendo: spiego minuziosamente le modalità di svolgimento di un elaborato, correggo in modo maniacale, costruisco griglie di valutazione sempre più analitiche, dedico ore e ore in classe a chiarire gli errori, a suggerire alternative corrette, a proporre esempi. Mi danno e mi danno e mi danno. Ma è uno sforzo vano. Vano perché appunto uso parole per parlare di parole, e le parole non vengono ormai più comprese, decodificate, anche solo accolte nella loro funzione.

Da anni mi chiedo se non si stia in realtà assistendo a un mutamento epocale, a una transizione evolutiva in cui si stanno rapidissimamente trasformando le strutture cerebrali stesse della specie umana. Forse avremmo bisogno di un monumentale corso d’aggiornamento, full immersion, tenuto da un qualche professorone di neuroscienze che ci spieghi come sono cambiate le connessioni neuronali, come funziona oggi il cervello, ammesso e non concesso che qualcuno lo sappia. Chissà, magari siamo avviati verso “magnifiche sorti e progressive” che non siamo neppure in grado di immaginare, e che si realizzeranno proprio grazie a un pensiero basato sulla simultaneità, l’interscambiabilità, l’abbattimento delle barriere spazio-temporali: un pensiero “divino”! Forse, invece, stiamo precipitando senza accorgercene in una regressione involutiva tragica e irreparabile, e forse tra qualche centinaio d’anni la Terra sarà nuovamente popolata di scimpanzé che mangiano serenamente bacche e si accoppiano felici sette volte al giorno.

Lo so, qualcuno mi verrà a parlare di “intelligenza emotiva”, di “pensiero divergente”. Solo che io non ci vedo alcuna forma di intelligenza, alcuna forma di pensiero.

Ma forse sono io ad essere ingabbiata dentro strutture rigide come corazze, obsolete e non più proponibili, non più esigibili, quelle stesse strutture che mi condannano perennemente anche nel quotidiano a classificare, schematizzare, gerarchizzare, verbalizzare, astrarre... Meccanismi mentali perennemente surriscaldati, che mi alienano a me stessa. Forse sto impazzendo, forse sono già pazza. Queste stesse righe mi appaiono ai limiti di una delirante quanto inutile affabulazione.
Come mi piacerebbe mettere in pausa il cervello, abbandonarmi a un odore, a una mano premuta... e chissenefrega della consecutio...

Insomma, la questione sta proprio qui. Vogliamo continuare a spiegare il mondo, e la letteratura, la filosofia, la storia dell’arte, le scienze ecc. ecc. a partire da modelli consolidati da secoli, ma non più evidentemente compresi né condivisi, oppure vogliamo aprirci a modelli di apprendimento e di sapere che non ci appartengono ma che sono quelli ormai dilaganti? Vogliamo continuare a proporre e ad esigere modalità di ragionamento logico, perché sappiamo e crediamo che sono le uniche possibili, le uniche in grado di “formare l’uomo e il cittadino”, oppure vogliamo adattarci a ciò che ci circonda, che magari disprezziamo, magari ci ripugna e ci nausea, ma che forse si rivelerà il modello vincente nei prossimi cinquant’anni? Quale deve essere insomma la funzione della scuola?

Non lo so, e vorrei tanto che qualcuno me lo dicesse.

Mi viene da fare un’ultima considerazione. In realtà non è vero che i ragazzi scrivono, tutti, male. Alcuni sanno scrivere bene, a volte benissimo, costituendo l’eccezione che conferma la regola: uno o due per classe e anche meno. Sono quelli che usano i tempi verbali giusti, un lessico ricco di sfumature e quasi tagliente nella sua precisione, quelli che costruiscono periodi complessi in una concatenazione lucida, stringente, inesorabile. Già. Peccato che quegli stessi ragazzi siano poi quelli che sono affetti da disturbi gravi, a volte gravissimi: nevrosi, anoressia, comportamenti ossessivi. Sono ragazzi profondamente soli, isolati, novelli Leopardi in un mondo che non li ama e che loro non amano. Strano come quella che solo vent’anni fa era la normalità confini oggi sempre più spesso con la patologia.

Mi piacerebbe essere ancora viva tra cinquant’anni. Non per altro, ma per vedere cosa ne sarà stato di questi ragazzi: se faranno parte di una ristrettissima élite di “menti” che dominerà più o meno occultamente su un gregge di miliardi di individui beatamente ottusi ed ebeti o se giaceranno sbronzi su qualche panchina, dimenticati e dimentichi di sé e del mondo.
Ma tra cinquant’anni non ci sarò. In ogni caso, meno male.






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